HICPE! GUARDATI! ma anche…guardami!

Guardare, guardarsi, essere guardati… possono essere significati condivisi nella lingua dei rom e in quella dei gagé?

Episodi come quello di Torre Maura a Roma ne fanno  dubitare fortemente.

Se è il nostro sguardo  a determinare una pedagogia implicita, che  induce a guardarsi e presentarsi al mondo nascondendo la propria appartenenza, manifestandone solo gli aspetti più eclatanti e superficiali, non rimane altra scelta che confermare quotidianamente gli stereotipi.

Un filo sottile di violenza attraversa la storia delle due comunità, ‘noi’ e ‘loro’.

Li accusiamo di cercare di non mandare a scuola i figli. Ma se la sensazione che noi induciamo è che essere rom o sinto è un problema, e i ragazzi percepiscono continuamente a scuola e nell’ambiente che questa è la loro situazione, e che la richiesta implicita è di rinunciare alla loro identità, quale aspettativa può stabilizzarsi verso le istituzioni?

Il compito educativo dovrebbe essere di mettere chiunque in condizione di dichiararsi, di guardare ed  essere guardato negli occhi, di essere visto.

Dice un ragazzo rom: ‘Se il mondo non è mai il tuo mondo, si alza un muro, si crea incomprensione, si pensa di non poter vivere insieme.’

E noi diciamo di loro: ‘Sanno vivere solo nel presente, non  hanno storia, sono asociali, vivono in maniera primitiva, sono ladri.’

Dice un anziano rom  alla domanda del perché non raccontano la loro storia: ‘Non vogliamo che i nostri morti siano trattati come spazzatura come state trattando noi’.

Considerandoli e guardandoli  come nomadi, automaticamente li consideriamo appena venuti, quando sono qui da generazioni.

Quando è facile dimostrare che il nomadismo lo abbiamo indotto noi ‘stanziali’, cacciandoli di comunità in comunità, di paese in paese. E’ del 1903 il censimento di tutta la popolazione rom  di Monaco, lo ‘Zigeuner buch’, che descrive caratteristiche genetiche, fisiche, psicologiche, antropometriche di rom di tutte le età, spingendoli all’emigrazione per sfuggire alle persecuzioni. [1]

Finiranno nei campi di concentramento fascisti e consegnati ai tedeschi finendo a Birkenau. I sopravvissuti sfuggiranno al ‘porrajmos’, l’equivalente per sinti e rom della shoah, passando di paese in paese.

Tuttora chiamiamo i luoghi di sosta che concediamo loro ‘campi nomadi’.

E dove si collocano tali campi, o gli insediamenti allestiti dopo gli smantellamenti (e gli annunci circa i censimenti)? Nei centri urbani o nei luoghi dello ‘sprawl’, le periferie più disgregate e penalizzate?

Con esiti quali quelli a cui abbiamo assistito a  Torre Maura o tempo fa a Goro nei confronti di migranti.

A fronte dei quali l’unico strumento sembra essere lo sguardo che umanizza. Guardare noi stessi. Per conoscere. Non per confermare le nostre categorie. Immedesimandosi in ciò che possono provare bambini fissati in categorie preconcette.

Ma come guardare, come parlare a chi strumentalizza la rabbia e l’insicurezza, il rifiuto dell’estraneo, a chi svilisce e infanga i più elementari diritti di umanità- l’asilo, il riparo, il cibo, il calore di una vicinanza?

E come opporre inclusione e interazione a chi prospetta come unica soluzione l’assimilazione?

Giancarlo Cavinato- portavoce Tavolo SaltaMuri


[1] Da una conversazione con Luca Bravi, Istituto degli Innocenti, Firenze, in occasione dell’ incontro ‘Hicpe!’  organizzato dall’ufficio Politiche sociali  del Comune di Venezia (  marzo 2019) “

Verso la luce – Museo dell’altro e dell’altrove Metropolitz di Roma -foto L.Corbo