SOSTITUZIONE ETNICA: UNA STRADA SBAGLIATA

Il nostro sistema dell’istruzione si è venuto affermando, seppure con fatica, sul terreno costituzionale, informato ai principi di laicità, pluralismo e partecipazione, secondo cui la scuola è aperta a tutti, senza discriminazioni di razza di sesso di lingua di religione, di opinioni politiche e di condizioni personali e sociali. In quanto formazione sociale e articolazione della Repubblica, la scuola ha inoltre il compito di educare alla solidarietà e di rimuovere gli ostacoli al rispetto dei diritti fondamentali e al pieno sviluppo della personalità dei giovani che le sono affidati. Recentemente si è inteso riconoscere dignità costituzionale anche alle generazioni future, tutelandone l’interesse a un ambiente sostenibile [Costituzione, artt. 2, 3, 9, 34].

In questo contesto, negli ultimi trent’anni l’Italia, da paese di migranti, si è trasformata in terra di immigrazione. Già questa terminologia è discutibile perché, come ogni classificazione, non rende ragione della concretezza irriducibile delle singole biografie, rischiando anzi di dissolverle nella generalizzazione. Le nostre scuole sono affollate di ragazzi e ragazze dalle “mille sfumature” di colore, mentre corridoi e cortili riecheggiano di decine e decine di lingue madri.

Recentemente assistiamo alla ripresa di una discussione pubblica sul tema della cosiddetta “sostituzione etnica”. Esponenti politici con alte responsabilità istituzionali vanno sostenendo che l’afflusso di popolazione migrante tenderà inesorabilmente a sostituire una popolazione italiana, ritenuta etnicamente omogenea, con “stirpi” e “popoli” alieni, portatori di culture ostili, ritenute non all’altezza della nostra “civiltà europea e occidentale”, cioè di fatto antropologicamente inferiori. Ecco fare la sua ricomparsa una lente etnico-culturale: etnie affini ai popoli dell’Europa continentale, dell’“Europa civile e democratica” e dunque ascrivibili, per questa via, al “campo democratico occidentale”, il campo della civiltà, da un lato, e dall’altro popolazioni afro-asiatiche-amerindie assimilabili a stirpi di tradizione e cultura dispotica e autocratica.

Addirittura, un ascoltato politologo arriva a sostenere che l’Italia e gli italiani devono “riscrivere la nostra pedagogia. Per illustrare la continuità della storia patria, fissando un legame indissolubile tra l’antichità e il tempo presente (…). Per celebrare l’omogeneità degli italiani, sconosciuta agli abitanti della penisola ma pressoché unica nel panorama occidentale”[1].

Del resto, i fatti umani e in primo luogo quel costrutto immateriale che chiamiamo cultura, nel momento dello studio e della sistematizzazione che ne consegue, obbliga – è nella natura stessa della ricerca – a tracciare invarianti, a definire confini, a individuare tratti e caratteristiche comuni, a evidenziare condivisioni storiche significative. Ma ci si incamminerebbe per una strada sbagliata se, nella concretezza della vita di relazione, nell’incontro vivo fra umani, ci si considerasse reciprocamente dei semplici “terminali”, ciascuno di una propria cultura d’appartenenza, come se il “costrutto intellettuale” [la cultura italiana, buddista, bantukimbundu o quel che sia], abitasse – in quanto tale, come oggetto immodificabile, come fatto compiuto – la mente di ciascuno.

È come se, avendo escogitato – per muoverci con sicurezza sulla superficie della Terra – l’utile escamotage delle coordinate geografiche, poi temessimo di inciampare in un meridiano, o cercassimo di scovare de visu dove si incrocia con un parallelo. In altre parole, si incontrano le persone, non le culture – legittimamente e opportunamente e ragionevolmente oggetto di studio – e sono appunto gli incontri fra umani che generano nuove sintesi culturali, unpredictable ex ante ma osservabili ex post.

Riportiamo infine le riflessioni “migranti” che Pavese fa svolgere a Nuto, il protagonista de “La luna e i falò”, 1950. “Chi può dire di che carne son fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione”.


[1] Articolo di Dario Fabbri inserito UNA STRATEGIA PER L’ITALIA, Limes , 2019